La fede e il paese dei balocchi

Martedì 13 Marzo 2012 09:41 Giuseppe Fiorini Morosini
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Uno strano titolo quello che ho dato a questa mia riflessione, nuovo passo verso l’anno della fede. Mi è sembrato espressivo per tradurre in una immagine certe attese sbagliate che alcuni ripongono nella fede. Tali attese sono riscontrabili anche nell’espressione di Pietro a Gesù mentre si godeva lo spettacolo della Trasfigurazione (Lc 9, 28-36): Maestro, è bello per noi stare qui. Facciamo tre tende, una per te, una per Mosé ed una per Elia. Pietro parlava pieno di entusiasmo, chiedendo che quell’esperienza non finisse mai, senza accorgersi, però, che nel frattempo Gesù, Mosé ed Elia parlavano di un fatto più drammatico, quello della prossima crocifissione e morte di Gesù. L’abbinamento delle cose, se Pietro fosse stato attento, doveva essere un segno chiaro che la gioia della trasfigurazione era solo momentanea ed in funzione dello scandalo della croce, non poteva essere duratura. Ma Pietro era completamente fuori della realtà e non riusciva a capire la lezione che Gesù voleva impartire con quel prodigio. E’ una situazione che si ricrea in molti cristiani ogni qualvolta pensano la fede in Dio come una sorte di immunità contro ogni difficoltà della vita, come una situazione di garanzia assoluta di fronte al male e di immunità di fronte ad esso. Spesso si pensa che, se uno crede in Dio e osserva la sua legge e lo onora con il culto pubblico e privato, la sua vita deve scorrere felice e tranquilla, senza gli imprevisti del dolore e della morte, senza le difficoltà del lavoro, delle incomprensioni nelle relazioni reciproche, senza l’ingiustizia e la violenza: una sorte di paradiso terrestre, senza la maledizione dopo il peccato: la terra produrrà triboli e spine; con il sudore della fronte mangerai il pane (Gn 3, 16-19). Si accarezza l’illusione che la fede segni l’ingresso nel paese dei balocchi, dove si può trovare solo divertimento e felicità e nel quale voleva andare a vivere il burattino Pinocchio, stanco delle fatiche scolastiche e di quelle nella bottega di mastro Geppetto. Subentra allora la delusione, la sfiducia, la perdita della fede. Si dimentica che il superamento di ogni sofferenza e di ogni conflitto, la stessa sconfitta della morte, nella Bibbia sono riservate all’eternità, secondo il libro dell’Apocalisse: Vidi la città santa, la nuova Gerusalemme scendere dal cielo, da Dio… e tergerà ogni lacrima dai loro occhi; non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate… io faccio nuove tutte le cose (Ap 21,1-5). Gesù, parlando con Mosé ed Elia della sua morte mentre con il fulgore della trasfigurazione (luce e biancore) offre un segno umanamente riconducibile alla sua divinità, ci richiama ad una valutazione del senso della vita tenendo viva e chiara la sua chiamata all’eternità; così anche il rapporto con il mistero della paternità di Dio non può limitarsi al tempo presente, ma deve abbracciare la vita dell’uomo nel tempo e nell’eternità. Se misuriamo l’amore del Padre verso Gesù valutando solo la sua passione e la sua morte in croce, non saremmo nel giusto, perché il Padre, che ha permesso la morte del Figlio, lo ha glorificato con la sua risurrezione, nella quale Gesù sperimenta il vero amore del Padre, che non lo ha abbandonato nella morte, ma sostenuto per attuare il suo disegno di salvezza per tutti gli uomini. La nostra cultura secolarizzata ha staccato la vita nel tempo da quella che ci attende nell’eternità santa e allora noi, che non riusiamo più a varcare l’orizzonte del tempo e dello spazio, vogliamo che Dio, se esiste, deve darci nel tempo quanto solo l’eternità può darci. Pensiamo e vogliamo che la prova dell’esistenza di un Dio, che è Padre e Provvidenza, consista  nel fatto che questa vita sia lunga, felice, ricca, senza problemi, senza fatica, senza contrasti nel nostro anelito verso la felicità, al limite neanche senza quei contrasti che scaturiscono da una legge morale naturale e perciò assoluta. Ma ciò è impossibile. Ne segue che l’esperienza del limite per tanti è una prova che Dio non c’è o per lo meno che non è il Padre che ci ama e provvede ai nostri bisogni. Potrebbe essere un’invenzione o per lo meno un essere astratto che nulla ha a che vedere con la storia degli uomini. E tutto questo perché? Perché, come scolaretti ai quali non piace il sacrificio di stare tra i banchi, non ci conduce nel paese dei balocchi, dove è solo divertimento e spensieratezza. Certamente, affermano, non è il Dio Provvidenza descritto da Gesù. Ma la rivelazione del volto di Dio Gesù ha detto che è lui stesso: Chi ha visto me ha visto il Padre (Gv 14, 9). Il mistero dell’incarnazione del Verbo di Dio è il modo come Dio si è rivelato a noi con il volto di Padre. Tutta la vita di Gesù, dall’incarnazione alla morte, è la rivelazione del mistero della presenza di Dio nella storia degli uomini, sia quella personale che universale. In Gesù Dio è presente nella vita dell’uomo, non nel senso che priva l’uomo delle difficoltà, ma nel senso di stare accanto all’uomo. E’ la presenza dichiarata da Gesù, per esempio, quando rassicura gli apostoli, che lo avevano scambiato per un fantasma: Coraggio, sono io, non temete (Mc 7, 50). Oppure nella celebre promessa: Sono con voi tutti i giorni, sino alla fine del mondo (Mt 28, 20), a garanzia che i fedeli non sarebbero rimasti soli nelle varie prove. I grandi credenti della storia hanno vissuto così il rapporto di fede con Dio. Il padre di tutti costoro, colui che per antonomasia è detto il padre nella fede, è Abramo. Se ripercorriamo la sua vicenda, ci rendiamo conto come il Dio nel quale egli ha creduto, non gli ha mai garantito una vita facile e senza difficoltà o problemi. Quando lo ha invitato a lasciare la terra dove egli abitava per recarsi nella terra che gli avrebbe dato in dono, non gli promise una sorta di città dei balocchi. Lo legò a sé con una promessa: Farò di te un grande popolo (Gn 12, 2); Guarda in cielo e conta le stelle… tale sarà la tua discendenza (Gn 15,5). Nulla di più. Ed Abramo credette sempre che il Dio che lo aveva chiamato avrebbe mantenuto fede alla promessa, pur attraversando prove e difficoltà, che mettevano in discussione la credibilità di Dio. La Bibbia nota sempre: Egli credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia (Gn 15, 6). Abramo credette in lui e nella sua promessa anche quando, dopo la nascita del figlio Isacco (Gn 21), atteso per lunghissimi anni, unico segno del compimento della promessa, gli viene chiesto da Dio di immolarlo in suo onore (Gn 22). Abramo stava per farlo, se l’angelo del Signore non ne avesse fermato la mano, indicandogli un ariete per il sacrificio. Abramo non divenne padre nella fede perché fu disponibile a offrire un sacrificio umano a Dio: lì dove viene inviato da Dio per farlo, la terra di Moria, il sacrificio umano era una fatto accettato dal popolo che vi abitava, non destava ribrezzo. Abramo fu lodato da Dio perché credette ancora nella sua promessa di dargli una lunga discendenza, anche quando gli chiese di immolare Isacco che era l’unico segno della fedeltà di Dio alla promessa. La scrittura dice di lui: Ebbe fede sperando contro ogni speranza (Rm 4, 18). Dio ci chiama ad una fede, che deve essere totale abbandono in lui. Vuole una sola cosa da noi: che lo sentiamo vicino. Vuole da noi questa fede matura: nel mistero della morte e risurrezione di Gesù dobbiamo vedere la prefigurazione di ogni nostra vicenda umana. Tutto ciò che ci accade sarà segnato dallo stesso mistero: un passaggio dal dolore alla gioia, dalla morte alla vita. Tutta la fatica della vita si consumerà nell’eternità beata del Paradiso. Altro che il paese dei balocchi!  
Ultimo aggiornamento Martedì 13 Marzo 2012 22:03