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L'impossibile repubblica di Caulonia

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Questo articolo è stato pubblicato il 22 febbraio 2011 alle ore 08:18.

Il 23 giugno 1947, presso il tribunale di Locri, in provincia di Reggio Calabria, si aprì il più grande processo politico del dopoguerra. Per contenere tutti i 365 imputati il magistrato fu costretto a spostare le udienze in un ex pastificio appositamente trasformato in corte di giustizia. Ma presto venne stabilito che il reato di cui i 365 erano accusati, la sollevazione armata del piccolo centro di Caulonia (all'epoca 15mila abitanti), ricadeva nei crimini prescritti dall'amnistia di Togliatti dell'anno precedente. Solo tre persone vennero condannate: Ilario Bava e Giuseppe Menno, responsabili dell'uccisione di un prete, e Pasquale Cavallaro, sindaco comunista del paese e - secondo la magistratura - mandante diretto dell'omicidio.

Si concludeva così una piccola vicenda locale che per qualche giorno, appena due anni prima, aveva attirato l'attenzione di tutta Europa, quando si raccontava che persino Stalin avesse dichiarato: «Ci vorrebbe un Cavallaro in ogni città». Ma chi era questo eroe di un giorno, destinato a pagare la propria bravata con otto anni di carcere? La storia della Repubblica di Caulonia ha i tratti, eccezionali e tipici al tempo stesso, del suo ispiratore. Compagno di scuola di Corrado Alvaro, maestro elementare di origine contadina, volontario decorato alla Prima guerra mondiale e poi, dopo una lite con un ufficiale, disertore, infine organizzatore di un'associazione a difesa dei braccianti in cui aveva cercato di coinvolgere anche alcuni membri della 'ndrangheta locale, Pasquale Cavallaro aveva 31 anni e una grande esperienza al momento della marcia su Roma. Prevedibilmente, l'ascesa del fascismo lo aveva subito visto tra i più fieri oppositori: picchiato dagli squadristi, privato del lavoro e inviato al confino dal 1933 al 1937, quando nel 1942 ricominciò l'attività segreta di proselitismo per il Partito comunista, Cavallaro era già un leader riconosciuto.
La vita politica ufficiale di Cavallaro inizia al principio del '44, allorché il prefetto di Reggio Calabria lo nomina quasi a furor di popolo sindaco del comune di Caulonia. In un clima di esasperata contrapposizione con i notabili locali, U professuri, come lo chiamavano i contadini, si lancia subito in un'ambiziosa politica di riforme: dalle perquisizioni per sottrarre le armi e il grano incettato dagli agrari alla richiesta rivolta al perito istruttore del comune di condurre una ricerca sulle usurpazioni delle terre demaniali.

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Allo stesso tempo, Cavallaro organizza di nascosto per il Pci il traffico delle armi alleate verso i partigiani del Nord, intercettando una parte delle spedizioni in vista di un'insurrezione filosovietica che in quel momento nessuno si sentiva di escludere del tutto. All'inchiesta del comune, il 75% dei terreni demaniali risulta usurpato dalle grandi famiglie del luogo, e la tensione cresce giorno dopo giorno tra le provocazioni degli ex fascisti (spalleggiati apertamente dai carabinieri) e le ansie di riscossa dei contadini. Ma Togliatti, nell'unico incontro con Cavallaro, è stato irremovibile: «Per ora niente». La via italiana al socialismo non deve passare per le armi. Almeno per il momento. E Cavallaro aspetta.
La bomba esplode un mese prima della Liberazione. Per il 6 marzo è prevista a Caulonia la ridistribuzione ai contadini delle terre occupate, ma la sera del giorno prima, con un tempismo un po' sospetto, i carabinieri arrestano con un pretesto il figlio di Cavallaro, Ercole. Di fronte alla provocazione, Cavallaro si decide a rompere gli indugi. La mattina del 6 si raccolgono a Caulonia tra i 5 e i 10mila volontari, in gran parte armati con i moschetti, le pistole e i mitra sottratti ai partigiani del Nord; sono presenti anche diversi 'ndranghetisti, che nella zona di Caulonia, a differenza delle altre parti della Calabria, sono schierati con i contadini. L'Italia è ancora una monarchia, ma sul modello delle esperienze partigiane del Nord (come la Repubblica della Val d'Ossola o di Alba, raccontate rispettivamente da Franco Fortini e da Beppe Fenoglio in pagine indimenticabili) Cavallaro decide che è il momento di proclamare la repubblica: la Repubblica di Caulonia.

Da questo momento sembra di leggere una versione aggiornata di Libertà: la novella che Giovanni Verga volle dedicare all'insurrezione scatenata a Bronte dalla notizia che in Sicilia era sbarcato Garibaldi e repressa nel sangue dal suo emissario Nino Bixio. Tempestivamente viene aperto un campo di concentramento per i nemici di classe, mentre si forma un Tribunale del popolo, che comincia subito a lavorare a pieno ritmo. Gli ex fascisti, che qui s'identificano quasi tutti con i latifondisti, vengono chiamati a uno a uno e sottoposti al giudizio popolare e poi a una serie di punizioni esemplari: baciare la scarpa di un contadino, camminare a piedi nudi, restare nudi nel freddo, intonare a comando l'allora celebre canzone Mamma son tanto felice, in qualche caso estremo bastonate e scudisciate. La sera i carabinieri liberano Ercole, accolto tra i festeggiamenti generali. L'insurrezione rimane ancora nei limiti tollerabili, finché la mattina dopo avviene l'imprevisto: nel clima di generale resa dei conti, mentre sta compiendo una perquisizione, Ilario Bava s'imbatte nel parroco Gennaro Amato, che da tempo ha una relazione clandestina con sua moglie, e nel corso di un alterco lo uccide con una fucilata all'inguine carica di allusioni.
Il confine che doveva rimanere invalicabile è stato superato. Cavallaro intuisce subito la gravità dell'accaduto e persuade i due uomini a costituirsi la mattina del giorno dopo alla polizia, ma non basta. A sua volta, Cavallaro viene convinto a mettere fine all'insurrezione dal segretario del Pci della provincia di Reggio, Musolino, e dal prefetto di Reggio, Priolo, che è socialista e che, in cambio della consegna delle armi, promette clemenza per i rivoltosi. Ma la notizia dell'uccisione del prete percorre in poche ore tutta l'Italia. Sono ancora troppo freschi i ricordi della guerra civile spagnola, con le esecuzioni sommarie di parroci, perché tutti, a destra come a sinistra, non vedano il pericolo di un'insurrezione generalizzata. Per qualche giorno la stessa alleanza delle forze antifasciste è in pericolo, con i liberali che si dicono pronti a lasciare la maggioranza se Togliatti non condannerà i fatti di Caulonia: cosa che in effetti avviene prontamente.

L'unico colpevole è Cavallaro. Il trionfalistico telegramma da lui inviato a Togliatti la mattina del 9 è la prova migliore che il sindaco di Caulonia non ha ancora capito cosa sta succedendo attorno a lui: «Insurrezione, come non mai in Calabria, con centro Caulonia, dopo superba soddisfazione ottenuta, est fermata. Solo un morto. Fascisti et reazionari, tutti intendano il basta». Per prudenza il Pci lo convince a lasciare il posto di sindaco e a nascondersi per qualche tempo a Napoli ma di fatto lo consegna ai carabinieri. E poche ore dopo l'arresto di Cavallaro, il 13 aprile, scatta un capillare rastrellamento pianificato da giorni con l'impiego di oltre 600 carabinieri: un'operazione che si conclude con 387 fermi, numerosi feriti tra i contadini e il sequestro di una parte dell'arsenale clandestino.
Alla fine Cavallaro avrebbe pagato per tutti: con una sentenza contraddittoria, che riformulava l'accusa da insurrezione armata ad associazione per delinquere così da poterlo punire come mandante (politico) di un delitto comune, non protetto dunque dall'amnistia. In aggiunta agli otto anni di prigione, da quel momento Cavallaro avrebbe incarnato nel suo partito il tipo del cattivo rivoluzionario: l'uomo che con la sua insurrezione velleitaria aveva dato un nuovo significato alla condanna di Trotsky contro chi s'illude di poter fare la rivoluzione "in un solo paese"... E uscito di prigione, Cavallaro dovette sperimentare l'ostracismo dei vecchi compagni, quando lui immaginava che sarebbe stato accolto a braccia aperte per non aver tradito il segreto della rete paramilitare clandestina. Dopo la scelta irreversibile della legalità, quelle erano storie che i comunisti preferivano dimenticare, e Umberto Terracini si adoperò a lungo affinché il deriso Cavallaro non aprisse bocca sulla scia del risentimento.

Gli storici non sarebbero stati da meno nella loro condanna. Se le repubbliche partigiane del Nord - comprese quelle fondate in Piemonte nell'estate del 1946 contro l'amnistia di Togliatti - andavano spiegate con categorie politiche, perché evidenziavano la presenza di due linee opposte nella Resistenza (riformista o rivoluzionaria), per Caulonia gli strumenti adatti erano quelli delle ricerche folkloriche. Che cos'era stata infatti l'insurrezione di marzo se non una riedizione della "festa popolare"? Né, da allora, è mancato chi ha evocato la memoria ancestrale dei moti antiborbonici di Caulonia del 1848 (su «Il Ponte» di Calamandrei, nel 1950) o chi, sulla base di una facile parentela geografica, non ha resistito alla tentazione di attribuire agli insorti il progetto di applicare a Caulonia la lezione della Città del Sole di Campanella. Lo stesso eterno irrazionalismo politico del comportamento delle masse meridionali che nel 1970 sarebbe evocato per spiegare l'insurrezione neofascista di Reggio Calabria, provocata dalla scelta di Catanzaro come capoluogo della regione.
Grazie allo sguardo di Medusa dell'antropologia, Cavallaro sarebbe diventato così sempre più spesso il simbolo delle eterne, ingenue aspirazioni di giustizia del mondo contadino, ovvero l'immagine di una cultura popolare antica quanto immobile. E poco importava che nel leader della Repubblica di Caulonia quelle suggestioni ancestrali convivessero tranquillamente con lo zelo organizzativo di un apprezzato funzionario di partito. Attribuirgli propositi secessionistici e vocazioni da profeta sarebbe stato da quel momento un modo per esorcizzare a posteriori - assieme all'imbarazzante vicinanza con la figura di Cavallaro - un evento ormai scomodo.

Dalla nostra distanza storica possiamo vedere finalmente le cose in maniera diversa. Per comprendere quel misto di universalismo e localismo che ha caratterizzato i fatti di Caulonia non è escluso che convenga rileggere un bell'intervento alla Costituente del comunista calabrese Fausto Gullo, ministro dell'Agricoltura dall'aprile del 1944 e responsabile di alcune delle leggi più avanzate contro il latifondo: una difesa appassionata dello stato unitario contro le ricorrenti tentazioni separatiste (ma anche regionaliste) che ci aiuta, forse, a orientarci meglio tra le contraddizioni e le identità multiple di Cavallaro (il rivoluzionario, il profeta, la testa calda, lo 'ndrangetista, il patriota decorato, il disertore, il dirigente di partito...), proprio perché cerca d'interpretare la lunga storia delle insurrezioni meridionali con categorie finalmente politiche. «È contro la Storia, contro la verità colui che osa affermare che il Mezzogiorno d'Italia, entrando a far parte della famiglia unitaria, ha perduto tutto e nulla guadagnato. Nelle rivolte contadinesche che seguirono all'unificazione d'Italia qual è sempre stato il segno verso cui si appuntarono tutte le ire, verso cui si volsero tutti gli odi delle masse? I poteri locali: quei poteri che, essi soli, mozzavano il respito alle popolazioni. [...] Uno solo è il pericolo: che le classi possidenti meridionali possano tornare, attraverso una larga autonomia regionale, a dominare la nostra vita». Oltretutto, parole sul valore dell'unità nazionale che oggi, a più di cinquant'anni di distanza, non hanno perso nulla della loro attualità.

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