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E il verbo si è fatto carne, e venne ad abitare in mezzo a noi

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Giovanni (Gv 1, 1-14) non ci racconta la nascita di Gesù come fa Luca (Lc 2, 1-20), che si sofferma sul racconto del fatto con molti particolari: sul tempo (censimento ordinato da Cesare Augusto), sul luogo (Betlemme e la grotta), sui protagonisti (Maria, Giuseppe e i pastori), sui segni che accompagnano l’avvenimento (angelo che annunzia ai pastori e angeli che cantano la gloria del Signore). Egli parla del mistero della parola e della sapienza di Dio, conosciute già nell’Antico Testamento, come di una Persona sussistente ed eterna che sta accanto al Padre, che si fa carne, cioè assume la condizione di debolezza e di mortalità dell’uomo. Giovanni, quindi, fa riferimento al mistero del Natale, cercando di coglierne il profondo significato teologico e di rivelarlo a noi.

Nella breve pennellata che egli ci offre attraverso i versetti che abbiamo posto a titolo della riflessione, Giovanni ci spiega la modalità scelta da Dio per salvare l’uomo. Egli, cioè, non ha pensato ad un intervento prodigioso (Satana proporrà prodigi e gloria a Gesù durante le tentazioni nel deserto, all’inizio della vita pubblica: Mt 4, 1-11), che avrebbe operato sul’uomo dall’esterno, come fatto prodigioso, ma non avrebbe toccato l’uomo nella sua interiorità più profonda consentendogli una comunione profonda con lui. Egli ha scelto la strada della condivisione della vicenda umana, inviando il Figlio (il Verbo eterno consustanziale a lui), che accetta di voler assumere la natura umana (Eb 10, 5-10), che il peccato di Adamo ed Eva aveva posto sotto il dominio del peccato (Rm 5, 19). Progetta, pertanto di condividere tutte le situazioni dell’uomo, anche le più tragiche, al vertice della quali c’è la morte. Ed a salvare l’uomo è stata proprio questa volontà di scendere sulla terra e di offrirsi in sacrificio al Padre (Eb 10, 10)..

Nel far questo Dio Padre è stato mosso dal suo grande amore, che, pieno di compassione nei confronti dell’uomo, invia il Figlio nel mondo non per giudicarlo, ma per salvarlo (Gv 3, 16-17). Tale compassione non va intesa come sentimento o emozione, che è solo dell’uomo, ma come volontà da parte di Dio di farsi simile all’uomo (con-patire), di essere uomo lui stesso. La lettera agli Ebrei esprime così questa verità di fede: Poiché dunque i figli hanno in comune il sangue e la carne, anch’egli ne è divenuto partecipe, per ridurre all’impotenza mediante la morte colui che della morte ha il potere, cioè il diavolo, e liberare così quelli che per timore della morte erano soggetti a schiavitù per tutta la vita (Eb 2, 14-18). Ecco perché Paolo scrive: Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della legge, diventando lui stesso maledizione per noi (Rm 3, 13). E la Lettera agli Ebrei (4, 15): Non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia compatire le nostre infermità, essendo stato lui stesso provato in ogni cosa, a somiglianza di noi, escluso il peccato. Giovanni, come abbiamo riportato nel titolo della riflessione, preferisce un’espressione più cruda, ma che equivale al pensiero di Paolo e dell’autore della Lettera agli Ebrei: egli scrive che il Verbo si è fatto carne; e carne nel nuovo testamento non equivale a corpo, ma alla situazione di fragilità, miseria e peccato dell’uomo (Gal 5, 13-26).

Perché Dio abbia scelto questa strada e non un’altra, lo spiega la Lettera agli Ebrei, in tutti quei passi in cui si afferma e si spiega che la condivisione della condizione fragile dell’uomo da parte di Gesù ha dato a lui la possibilità di capire l’uomo e di esercitare nei suoi confronti quella compassione, che ha portato all’umanità la salvezza: Proprio per essere stato messo alla prova ed avere sofferto personalmente, è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova (Eb 2,18; 4, 15; 5, 7-10). Il mistero dell’Incarnazione non si esaurisce perciò nell’evento della nascita a Betlemme, ma dura tutta quanta la vita di Gesù, all’interno della quale si dispiega il suo farsi uomo, assumendo tutte le gioie e le sofferenze che l’essere uomo comporta. Nel momento, però, in cui egli le assume, le riscatta dalla maledizione del peccato e perciò dalla disperazione del non senso.

In questa luce dobbiamo leggere tutti i fatti della vita di Gesù raccontati dai Vangeli, e tutti gli altri che possiamo immaginare come accaduti a Gesù e che egli ha vissuto conducendo la normale vita di un figlio di carpentiere (Mc 6, 3). Fino all’ultimo grande evento della sua vita, che è stato la morte. Potrebbe sembrare un paradosso, ma non lo è: l’ultimo atto della vita di Gesù, l’ultima occasione per realizzare e compiere l’Incarnazione è stata proprio la morte sulla croce. E’ lì che l’espressione di Giovanni: Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi, raggiunse la pienezza. Lì l’umanità di Gesù, posta dal peccato di Adamo, come quella di ogni uomo, sotto il dominio della morte, raggiunse la sua pienezza, ma anche la sua fine e dissoluzione nel sepolcro. La morte però, proprio perché il Verbo l’ha assunta ed è morto anche lui come ogni uomo, viene riscattata da questo dominio e restituita alla speranza della vita eterna (1Cor 16, 54-58).

Il Natale ci ricorda pertanto la scelta fatta da Dio per portare la salvezza all’uomo. Possiamo dire allora che Gesù non ci salva togliendoci la fatica della vita, ma mettendosi accanto a noi, accompagnandoci in questo cammino e offrendoci, attraverso la chiave interpretativa della sua passione e morte, la spiegazione del senso che nella vita hanno le difficoltà, alle quali l’uomo è sottoposto, e segnalandoci il fine e la meta dell’ultimo approdo della vita presente, il cielo. Nella vicenda dei discepoli, che da Gerusalemme vanno ad Emmaus (Lc 24, 13-35), il giorno della risurrezione alla quale non avevano creduto, possiamo individuare gli elementi che ci spiegano la modalità della salvezza. Gesù si accompagna a loro come un pellegrino qualunque, e perciò essi non lo riconoscono. A loro spiega, ricordando le Scritture, il perché egli dovette affrontare la croce e morire, e li conforta e li rimprovera per la loro mancanza di fede. Si rivela loro solo al momento dello spezzare il pane. Consegna loro, perché fosse consegnato alla Chiesa, il monito che la chiave interpretativa del mistero della nostra vita è sempre la morte e risurrezione del Signore.

Se ci facciamo compagni dei discepoli di Emmaus, allora impareremo a collocare il Natale nella prospettiva della risurrezione e a viverlo al di là di ogni emozione, sia quelle provocate dall’apparato esterno che la fede ha costruito, sia quelle costruite dalla cultura di un popolo per interessi spesso non religiosi. Il Natale ogni anno deve essere per noi un’occasione per riscopre le ragioni della festa stessa: Dio si è coinvolto nella storia dell’uomo e quindi anche in quella di ciascuno di noi. Con il nostro personale atto di fede dobbiamo, di conseguenza, collocare la nostra storia personale in questa storia di salvezza, nella quale incontreremo il Signore, anche se non riusciamo a intravederlo, non come colui che toglie gli ostacoli dalla nostra vita, ma come chi ci aiuta ad affrontarli con coraggio e forza, perché ci permette di sconfiggere il peccato.

Il discernimento annuale di questa festa lo dobbiamo fare leggendo la parola di Dio e nutrendoci dei sacramenti, soprattutto dell’Eucarestia.

 

Ultimo aggiornamento Domenica 30 Dicembre 2012 14:15  

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