Home La verità su Cavallaro
La verità su Cavallaro PDF Stampa Email
Scritto da Sandro Cavallaro   
Lunedì 17 Maggio 2010 19:26
I fatti di Caulonia del marzo 1945, possono essere visti, e furono visti, sotto una molteplicità di aspetti. A parte coloro che li stigmatizzarono come una forma di jacquerie meridionale non esente da connotati di delinquenza (Montanelli), molti li inquadrarono fra le lotte per la terra, che in quel periodo esplosero in varie località del meridione; altri li individuarono come ribellione ai rigurgiti di fascismo, che nonostante fosse stato sconfitto, ancora continuava a tenere in mano le leve del potere, nella burocrazia, nelle istituzioni, in tutti i posti di comando; altri ancora li ritennero una rivolta contro i residui di feudalesimo che ancora imperava nella società meridionale e a Paulonia in particolare. Certamente tutte queste interpretazioni hanno un fondo di verità, anche se nessuna di esse riesce a cogliere i motivi veri che produssero quegli avvenimenti. Non riesce e non può, perché finora tutti hanno cercato di spiegare i fatti di Caulonia, esaminandoli in se stessi, avulsi dal contesto storico che li ha preceduti e incapaci di un’analisi imparziale, senza pregiudizi, delle situazioni che li hanno prodotti. E così è venuta fuori l’immagine di un Cavallaro, che, al di fuori di ogni logica, decide di fare una rivoluzione per instaurare fantomatiche repubbliche o, peggio ancora, per vendicarsi dell’arresto del figlio. E tutti si sono sbizzarriti nell’analisi ossessiva dei cinque giorni della Repubblica, soprattutto del famoso Tribunale del Popolo, calcando la mano sulla gravità delle pene comminate, senza avere , non dico la capacità storica, ma nemmeno il buon senso di capire che quelle piccole, insignificanti violenze che, comunque, si verificarono, sarebbero state ben poca cosa, se veramente a Caulonia si fosse voluto fare una rivoluzione, ma che esse furono, invece, il minimo indispensabile per soddisfare la sete di rivalsa e di vendetta (per lungo tempo conculcata!), che albergava nell’animo di coloro che si erano sollevati. E c’è voluto tutta la forza d’animo, l’autorità, il carisma di Pasquale Cavallaro per frenare tutte quelle pulsioni ataviche, che, se non avessero trovato una forma che le contenesse, una cornice che evitasse straripamenti, un contenitore che desse finalmente al popolo la sensazione di essersi riappropriato della sua sovranità (vedi Tribunale del Popolo, Consiglio della Rivoluzione, Consiglio del Popolo, ecc.), non si sa quali sbocchi avrebbe potuto avere. Oggi, finalmente, dopo tutto il veleno e le nefandezze, gettate addosso a Pasquale Cavallaro, sono venuti alla luce alcuni documenti, che possono, non dico fare totale chiarezza su quelle vicende, perché la maggior parte dei documenti furono distrutti dal PCI, oppure occultati, ma almeno chiarire i punti essenziali, e sulla figura di Pasquale Cavallaio e sulle motivazioni che portarono alla cosiddetta “Repubblica di Caulonia”. Perciò, sulla base di queste novità travolgenti, tutte le vecchie ricostruzioni, le elucubrazioni di certi storici, non hanno più senso. Già nel 1923 Cavallaro entrò a far parte di un’organizzazione clandestina antifascista, nella quale assunse cariche importanti; nel ’25, dopo l’assassinio di Giacomo Matteotti scrisse sul giornale “La Libertà” uno degli articoli più coraggiosi (con grave rischio anche per la propria incolumità fisica) per l’assassinio del deputato socialista, tale da attirare l’attenzione dello stesso Ciano; sempre nel ’25, nel periodo matteottiano, fu per breve tempo a Parigi, forse per incontrare i fuoriusciti politici, perseguitati dal fascismo, che in Francia avevano trovato rifugio. Comunque sia, sta di fatto che a cominciare da quel periodo, dopo il suo rientro dalla Francia, cominciò ad ospitare e nascondere nel suo podere di Rose diversi perseguitati politici, intellettuali e professionisti, provenienti soprattutto dalla Liguria e dalla Lombardia. Dopo il suo ritorno dal confino, entrò nel Movimento Clandestino di Concentrazione Antifascista. “Lavorò sodo in un ambiente estremamente per lui pericoloso.”, dice Enzo Misefari, “Fu presente in riunioni e frequentò il Covo rosso nel capoluogo. Fin dal ’41 iniziò letture sovversive. Il crollo del regime lo trovò pronto a prendere le redini del movimento. Non era un estremista”. Fu in questo periodo, subito dopo il 1941, che Cavallaro fu investito, da parte dei dirigenti comunisti, che operavano nella clandestinità, di cariche importantissime non solo per la Calabria ma per l’Italia tutta. Si trattava dell’operazione “Armi ai Partigiani”, che coinvolgeva in un unico disegno, naturalmente con diverse prospettive, il PCI, il PSI e il Comando Militare Alleato anglo-americano. Si trattava di quell’operazione di cui parla Umberto Terracini nella lettera inviata a Pasquale Cavallaro il 3-8-1953, il quale, dopo l’uscita da carcere, sentendosi abbandonato da quel Partito Comunista al quale aveva sacrificato se stesso, i suoi beni e la sua famiglia, stava per dare alle stampe il grande segreto del PCI, di cui era depositario. In essa, fra le altre cose, si legge: “Si evince chiaramente che hai preso la decisione di dare in pasto alla stampa l’operazione “Armi ai Partigiani” con tutti i dettagli positivi e negativi che ne conseguono. E quindi rendere pubblico il “comportamento” che l’organizzazione ha riservato a molti gerarchi fascisti e qualche agrario in Sicilia, Reggio Cal. e Cosenza”. Tale organizzazione contemplava la divisione della Calabria e della Sicilia in 12 distretti militari (sette in Sicilia e cinque in Calabria), i cui capi, a parte Cavallaio che si trovava in carcere, furono tutti ricompensati con l’elezione al primo Parlamento Repubblicano del 1948. Pasquale Cavallaro era uno dei dodici e l’organizzazione militare di cui era a capo si estendeva da Reggio Calabria, lungo la costa ionica, fino a Catanzaro e a Lamezia Terme. Cosa, quest’ultima, confermata da una lettera dell’Alto Comando Alleato del dicembre 1943, a firma di Wallace D. Graham e indirizzata a Pasquale Cavallaro, nella quale si legge: “John Puglisi e William Redford mandano i saluti a tuo figlio Ercole, mentre Albert Crowford ringrazia tutto il manipolo di Lamezia Terme per il coraggio dimostrato e l’organizzazione perfetta”. Inoltre, l’operazione “Armi ai Partigiani” riguardava lo sbarco delle armi da parte degli anglo-americani avvenuto tra il secondo semestre del 1942 e il primo del 1943 e finito prima dello sbarco in Sicilia. Ecco cosa dice in proposito Enzo Misefari: “Perché loro a noi le armi le hanno portate prima, capisci? prima dello sbarco…, perché prima dovevano far saltare l’ordinamento interno, per poter sbarcare senza perdite…”. Tali armi erano destinate soprattutto ai futuri partigiani dell’Italia centro-settentrionale, ma non tutte arrivarono a destinazione, perché una parte fu trattenuta dal popolo per armarsi, come dice Terracini nella lettera sopraccitata, quando afferma: “Se i compagni si sono armati sottraendo parte delle armi che dovevano arrivare ai partigiani, all’epoca è stato giusto. Non si poteva sapere come sarebbero andate a finire le cose”. Alle parole di Terracini fa eco Enzo Misefari, quando afferma: “Allora noi non avevamo più il vecchio progetto (che era quello di armarci e tirare addosso), avevamo un progetto nuovo, diciamo così: attendere gli avvenimenti per capire se fosse il caso o meno di usare le armi, di batterci come formazioni, diciamo così, militari”. In questo contesto, Cavallaro, alla fine del 1943, fu eletto sindaco di Caulonia “a furor di popolo”, con il beneplacito degli Alleati. Per la borghesia agraria e fascista questo fatto era inaudito e non facilmente digeribile, tanto che fin dal primo giorno mise in atto tutti gli strumenti possibili e immaginabili, dalle intimidazioni agli attentati, fino a orchestrare sapientemente anche l’arresto del figlio del sindaco, Ercole, per far cadere l’amministrazione di sinistra. Non era possibile che quel Cavallaro, che essi avevano da sempre perseguitato, vilipeso, fatto condannare per reati presunti e mai dimostrati, adesso sedesse su quella poltrona che era da sempre appartenuta a loro, quasi per diritto divino. Bisognava farlo cadere in qualsiasi modo (?). Del resto, il potere, nonostante la caduta del fascismo, era ancora in mano loro. I magistrati, i giudici, le forze dell’ordine erano nelle loro mani e anche il clero era dalla loro parte. Ecco perché la gente ne aveva veramente abbastanza. Ma non furono loro, non fu il popolo a far scoppiare la rivolta! E nemmeno Pasquale Cavallaro. La rivolta scoppiò perché c’era in atto un’organizzazione militare armata, che di fronte all’ennesima provocazione, impugnò le armi (quelle armi sbarcate dagli anglo-americani, e destinate ai Partigiani, come dice Terracini, ma che il popolo trattenne, in parte, per armarsi). Ecco cosa scrivono in proposito Mario Alcaro e Amelia Paparazzo in Lotte contadine in Calabria, “…l’insurrezione ha potuto attuarsi… solo in un contesto politico caratterizzato già da una fase avanzata di mobilitazione del movimento contadino e popolare; in una situazione, cioè, già controllata politicamente e militarmente dalle forze della sinistra”. La rivolta divenne rivoluzione, nella sua accezione più propria, già a cominciare dall’alba del secondo giorno, quando il popolo, dopo aver capito la natura della protesta, partecipò in massa e sempre più numeroso man mano che passava il tempo. Affluivano da tutte le parti, dai paesi, dalle contrade più lontane, con entusiasmo, con passione, con impeto, per essere testimoni e partecipi di quel grande evento che avrebbe dovuto mutare la loro storia. A questo punto Cavallaro non riuscì più a fermarli, ma non se la sentì nemmeno di abbandonarli, col rischio di precipitare verso una deriva dagli sviluppi imprevedibili, e si rivolse a chi sapeva che aveva la suprema responsabilità di quanto stava accadendo: il Partito Comunista. Ma il Partito prese le distanze da quella situazione, di cui non era Cavallaio il responsabile, anche se all’inizio, insieme alla stampa di sinistra, lo difese, come fece Togliatti nell’intervento di chiusura al Secondo Consiglio Nazionale del PCI, che si tenne in Roma dal 7 al 10 aprile 1945, quando dice: “Non vi è bisogno che io dica qui che siamo pienamente solidali col compagno Cavallaio per l’azione che egli ha condotto a Paulonia in difesa delle libertà elementari di quella popolazione e per riuscire ad opporre una barriera alla avanzata delle forze reazionarie. Conosco questo compagno e so che, con tutti i difetti che può avere, è un buon militante del nostro partito e dell’antifascismo”. E ancora, il 18 aprile 1945, in un articolo su “l’Unità”, “I lumi di Diogene”, si afferma, riferendosi a Cavallaro, “Ci troviamo di fronte a un uomo, bandiera dell’antifascismo nella sua provincia, il quale per vent’anni ha attirato su di se i fulmini dei poliziotti e funzionari asserviti al Fascismo ma che i magistrati non hanno mai potuto condannare per un delitto comune”. Ma poi, per ragioni di opportunità politica, forse anche sollecitati dagli Americani, che temevano una deriva bolscevica di quel movimento che rischiava di allargarsi sempre di più, il Partito decise di sacrificare Cavallaro, nonostante egli abbia sempre agito, come dice Terracini in una lettera del 14-4-1953, “in servizio e per amore del Partito”.
Ultimo aggiornamento Venerdì 25 Giugno 2010 07:30
 

This content has been locked. You can no longer post any comment.

Footer

Copyright © 2024 robertopolito. Tutti i diritti riservati.
Questo è un libero software rilasciato sotto licenza GNU/GPL.
 

GTranslate

News